“lo human-centered design non persegue soluzioni totalizzanti e definitive, bensì un continuo miglioramento
che si basa sui dati forniti dal coinvolgimento”

Eye tracking, sotto l’heatmap niente!

17 Settembre 2009,in

Quello che segue è il testo del mio commento a un post di Alberto Mucignat sull’eye tracking (link non più disponibile), opportunamente rivisto per adeguarlo a questo articolo.

Ciao Alberto, proprio stamattina (16/09 ndr) sono andato a una demo di un sistema di eye tracking. Strumento molto completo quello della SMI, più sofisticato di quello della Tobii (visto a UPA Europe), soprattutto nel software di analisi. Quando sono uscito, dopo un’ora e mezza, la domanda che mi sono fatto è stata questa: mi serve questo strumento per il mio lavoro? La risposta è stata no. L’apporto che l’eye tracking può dare a un test di usabilità qualitativo è molto modesto, quasi nullo e in questo concordo con te. Ma, come sai, non mi piace dare giudizi senza argomentarli e prendo spunto da una delle slide della presentazione che hai citato, la n. 21, per un’analisi più dettagliata.

Schermata

Delle tre fonti dati illustrate nella slide, “cosa guardano“, “cosa dicono“, “cosa fanno“, quella più debole è proprio il “cosa guardano”: da sola, infatti, non ci dice assolutamente nulla sul perché un elemento viene guardato più intensamente di un altro. Per esempio, il partecipante fissa intensamente un testo perché è estremamente interessante o perché è incomprensibile? Senza l’aiuto del thinking aloud, non lo sapremo mai. Ma sappiamo anche che, bisogna diffidare sempre di quello che viene detto da un partecipante durante un test di usabilità. Spesso, infatti, dicono una cosa e ne fanno una completamente diversa. Per questo, l’aspetto più importante in un test di usabilità, è l’osservazione, ossia “il cosa fanno”. Un moderatore esperto sa riconoscere il momento in cui fare la domanda giusta, quella che illumina l’angolo buio. È evidente, quindi, che nell’economia di un test di usabilità, utilizzare l’eye tracking per sapere cosa sta guardando il partecipante, è assolutamente secondario.

Un altro aspetto da considerare è che, i casi di studio non fanno altro che evidenziare l’ovvio. In questo esempio, presentato da Google, i risultati sono di una banalità sconcertante. Ho davvero bisogno dell’eye tracking per sapere che nella pagina dei risultati i più visti sono i primi della lista? Ho davvero bisogno dell’eye tracking per sapere che le immagini non sono l’elemento a cui delegare il compito di attirare l’attenzione in una pagina web? No, di certo. Un bravo ed esperto progettista di interfacce queste cose le sa. Inoltre, non c’è certo bisogno dell’eye tracking per testare delle landing page. A parte progettarle come si deve, basta un semplice A/B test per capire quale funziona meglio. Per intenderci tutte le cose che l’eye tracking fa, nella lista stilata da Luca Schibuola nel suo commento, le possono fare un bravo progettista grafico e un esperto valutatore di interfacce, a un costo decisamente minore. Probabilmente queste figure, sono merce rara di questi tempi.

Ma l’eye tracking a qualcosa servirà? Certo che si, basta visitare il sito del Norman Nielsen Group per capirlo. Test di usabilità quantitativi che usano l’eye tracking con una metodologia chiara, obiettivi definiti e un alto numero di partecipanti per valutare strutture di pagine web e definire pattern di progettazione.