Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di stefano (del 20/02/2012 @ 08:17:21, in Analisi, linkato 5054 volte)
Questo fine settimana sono stato a un meeting di una grande agenzia di comunicazione visiva a parlare di user experience. Per due giorni ho seguito i loro interventi su brand, reputazione online, pubblicità e di molto altro. Ma in ogni presentazione e in ogni caso di studio non c’era traccia dei destinatari di tutte le attività comunicative: le persone. Ne come punto di partenza ne come punto di arrivo. Solo in una slide si è intravisto un accenno di focus group passivo, dove i partecipanti si limitavano a dire mi piace/non mi piace. Sono stato l’ultimo a intervenire e ho spiegato c’osé la user experience e perché è importante. Per rinforzare questo aspetto ho raccontando alcune storie reali. Il mio obiettivo era quello di evidenziare che se non curi tutti i canali di comunicazione, soprattutto quelli che le persone utilizzano per interagire con l’azienda, non servirà a nulla progettare sapientemente una brand identity, sviluppare una campagna pubblicitaria che fa incetta di premi, curare la reputazione online con certosina dedizione. Perché è cambiato il mondo, e se prima la comunicazione chiedeva sporadicamente il supporto dell’interazione ora è l’interazione il veicolo principale della comunicazione. Dopo di me ha parlato il presidente dell’agenzia e qui c’è stato il colpo di scena. Il concetto che avevo espresso poca prima e veicolato in modo molto garbato è stato esplicitato in modo chiaro, quasi brutale direi: o ci adeguiamo o moriamo, perche il mondo intorno a noi è cambiato e noi siamo rimasti fermi. Questo, aggiungo io, è valido anche per molte aziende che non si occupano di comunicazione. Avevo già incontrato, nel 2008, alcune persone di quest’agenzia, per presentare i servizi di usertest/lab e spiegare loro che progettare correttamente la user experience è importante per la brand identity e la reputazione online. Mi fu detto che loro lavoravano su un altro livello e che l’approccio user-centered non gli interessava. Ora dovranno inseguire e non sarà facile. Perché quando si passano tanti anni di fronte allo specchio dei desideri a tirare fuori centinaia di pietre filosofali, non una come Harry Potter, poi è difficile coprirlo e chiudere la stanza a doppia mandata. Quelle pietre che trasformavano tutto in oro ora sono zavorra. Ci vuole un cambio di mentalità notevole per uscire fuori, tra le persone alle quali non frega nulla del tuo lavoro, prese come sono dalle necessità contingenti e a perseguire i loro sogni e progettare per loro. Senza contare la difficoltà di convincere aziende alle quali hai proposto fino a ora un modello di comunicazione e spiegargli che quel modello è superato e che progettare per i loro clienti è molto più importante che vincere premi.
Di stefano (del 09/05/2011 @ 16:07:42, in Analisi, linkato 7463 volte)
Di ritorno da Milano, dove ho partecipato a una splendida edizione dell’Italian IA Summit, voglio condividere l’inquietudine nata da un talk sull’ubiquitous computing, ovvero sull’interconnessione tra il mondo reale e quello digitale attraverso oggetti - smartphone, RFId, ecc. - che comunicano tra di loro.
Un brivido anticipatore l’ho provato quando Nicola Palmarini (IBM) ha parlato di “oggetti che comunicano tra di loro al di fuori della nostra volontà”. Poi, con esempi reali - una panoramica molto veloce - ha descritto oggetti che comunicano il livello di stress di una persona, applicazioni che permettono di monitorare le persone dall’esterno delle loro case e altre cose simili. Tutto molto bello, un mondo ideale illuminato dal sol dell’avvenire digitale.
Ma quel brivido è divenuto vera e propria inquietudine quando, alla fine dell’intervento, ho chiesto se tutta questa tecnologia pervasiva poteva portare a sviluppare strumenti di controllo sociale e personale. La sua risposta è stata che dipendeva soprattutto da noi, perché in prima persona forniamo coscientemente e volutamente informazioni sul quando, dove, come e cosa facciamo.
Questo mi inquieta perché non è vero. Dare la responsabilità al singolo individuo per quello che potranno fare potere politico ed economico con l’utilizzo di queste tecnologie è voler chiudere gli occhi sul mondo in cui viviamo. Sarà che ho letto troppo fantascienza nella quale l’uomo non è padrone del suo destino - Dick e Ballard in particolare - ma io posso fare ben poco per difendermi. Posso, come in effetti faccio, evitare di lasciare tracce della mia vita quotidiana sui social network generalisti e fare a meno delle carte fedeltà, ma non posso evitare che altri, a mia insaputa, possano farlo (per esempio pubblicando una mia foto su Facebook o su Flickr). Ma qui non voglio analizzare questioni di privacy, di etica e quant'altro. Quello che voglio sono strumenti di difesa, protocolli e oggetti che mi permettano di combattere l’uso distorto che verrà fatto di queste tecnologie.
Questa è la mia modesta lista dei desideri: - uno strumento che mi permetta di individuare gli RFId, sapere che - informazioni raccolgono, per conto di chi e di poterli neutralizzare; - uno strumento che impedisca la scansione remota degli oggetti digitali - di mia proprietà; - uno strumento che mi permetta di non restare prigioniero di una rete digitale; - uno strumento che mi permetta di mappare sul territorio gli oggetti destinati - al monitoraggio dei device mobili.
Non mi sembra di chiedere troppo e, se qualcosa già esiste, avvisatemi.
Di stefano (del 01/06/2010 @ 10:10:04, in Analisi, linkato 2527 volte)
Come sempre in queste occasioni, quando si torna si prova un senso di euforia, come quello dovuto all’aria di alta montagna. Tutto sembra facile e possibile. A poco a poco l’effetto svanisce, ma rimane sempre la sensazione di essere più ricchi e di avere maggiore consapevolezza del proprio lavoro. E questo, grazie alle persone incontrate e alle idee condivise. Quelle che seguono sono alcune considerazioni, fatte a mente fredda, su quello che ho visto e ascoltato. - La maggior parte delle presentazioni trattavano dell’ usabilità come processo e non come strumento di valutazione. Si è parlato, quindi, di human-centered design, user experience, etc. senza mai perdere di vista l’obiettivo ultimo di questi approcci: rendere facile la vita alle persone che utilizzeranno i prodotti. - Ricerche etnografiche e personaggi sono sempre parte integrante di questi approcci. In alcuni casi, Oracle per esempio, come strumenti per guidare l’innovazione. In altri casi, strumenti di progettazione, come nella presentazione di Mad*Pow. - Tutti i produttori di sistemi per l’eyetracking erano presenti con i loro stand e almeno due presentazioni erano dedicate a promuoverne l'utilizzo. L’unico intervento che ho seguito non ha smosso di un millimetro la mia convinzione che si tratta di uno strumento poco utile. In uno degli esempi mostrati, non era certamente necessario l’eyetracking per capire che le immagini in un catalogo di e-commerce erano troppo piccole e che era necessario ingrandirle per aumentare le vendite. Gli altri esempi, credetemi, non erano certamente più incisivi. A quanto pare, il punto di forza dell’eyetracking non è la sua capacita di fornire indicazioni utili, ma quello di farle vendere, per quanto banali siano. Certo, se si hanno circa 90.000 euro da buttare, tra sistema e formazione, è indubbiamente un buon investimento.
Di stefano (del 17/09/2009 @ 08:15:32, in Analisi, linkato 5611 volte)
Quello che segue è il testo del mio commento a un post di Alberto Mucignat sull’eye tracking, opportunamente rivisto per adeguarlo al nuovo contesto. Ciao Alberto, proprio stamattina (16/09 ndr) sono andato a una demo di un sistema di eye tracking. Strumento molto completo quello della SMI, più sofisticato di quello della Tobii (visto a UPA Europe), soprattutto nel software di analisi. Quando sono uscito, dopo un’ora e mezza, la domanda che mi sono fatto è stata questa: mi serve questo strumento per il mio lavoro? La risposta è stata no. L’apporto che l’eye tracking può dare a un test di usabilità qualitativo è molto modesto, quasi nullo e in questo concordo con te. Ma, come sai, non mi piace dare giudizi senza argomentarli e prendo spunto da una delle slide della presentazione che hai citato, la n. 21, per un’analisi più dettagliata. Delle tre fonti dati illustrate nella slide, " cosa guardano", " cosa dicono", " cosa fanno", quella più debole è proprio il “cosa guardano”: da sola, infatti, non ci dice assolutamente nulla sul perché un elemento viene guardato più intensamente di un altro. Per esempio, il partecipante fissa intensamente un testo perché è estremamente interessante o perché è incomprensibile? Senza l’aiuto del thinking aloud, non lo sapremo mai. Ma sappiamo anche che, bisogna diffidare sempre di quello che viene detto da un partecipante durante un test di usabilità. Spesso, infatti, dicono una cosa e ne fanno una completamente diversa. Per questo, l’aspetto più importante in un test di usabilità, è l’osservazione, ossia "il cosa fanno". Un moderatore esperto sa riconoscere il momento in cui fare la domanda giusta, quella che illumina l’angolo buio. È evidente, quindi, che nell’economia di un test di usabilità, utilizzare l’eye tracking per sapere cosa sta guardando il partecipante, è assolutamente secondario. Un altro aspetto da considerare è che, i casi di studio non fanno altro che evidenziare l’ovvio. In questo esempio, presentato da Google, i risultati sono di una banalità sconcertante. Ho davvero bisogno dell’eye tracking per sapere che nella pagina dei risultati i più visti sono i primi della lista? Ho davvero bisogno dell’eye tracking per sapere che le immagini non sono l’elemento a cui delegare il compito di attirare l’attenzione in una pagina web? No, di certo. Un bravo ed esperto progettista di interfacce queste cose le sa. Inoltre, non c’è certo bisogno dell’eye tracking per testare delle landing page. A parte progettarle come si deve, basta un semplice A/B test per capire quale funziona meglio. Per intenderci tutte le cose che l’eye tracking fa, nella lista stilata da Luca Schibuola nel suo commento, le possono fare un bravo progettista grafico e un esperto valutatore di interfacce, a un costo decisamente minore. Probabilmente queste figure, sono merce rara di questi tempi. Ma l’eye tracking a qualcosa servirà? Certo che si, basta visitare il sito web del Software Usability Research Laboratory per capirlo. Test di usabilità quantitativi che usano l’eye tracking con una metodologia chiara, obiettivi definiti e un alto numero di partecipanti per valutare strutture di pagine web e definire pattern di progettazione.
Di stefano (del 16/07/2009 @ 16:27:11, in Analisi, linkato 3145 volte)
In un articolo pubblicato oggi da Repubblica.it, Siti internet lenti e poco chiari - Quanto stress per i clienti web, vengono presentati i dati di una ricerca che conferma quello che ho sempre pensato e sostenuto: se il commercio elettronico non decolla, non è per mancanza di banda larga, ma per la pessima qualità dei siti web.
Basta scorrere l'articolo e leggere i dati: il 34% delle persone non concede al sito web più di 10 secondi per rispondere e caricare la pagina prima di andarsene; il 38% trova difficoltà nell'eseguire le procedure di acquisto, e la maggior parte di loro, il 46%, va in un altro sito web o, il 34 %, rinuncia.
Inoltre, come già si sapeva, la stragrande maggioranza delle persone, il 95%, cerca informazioni attraverso i motori di ricerca, ma lascia il sito web in pochi secondi, se non trova subito quello che cerca.
Indispensabile, quindi, per non far fuggire i potenziali clienti, adottare una chiara architettura informativa, scrivere testi comprensibili (anche quelli letti dai motori di ricerca, come i metatag) e avvalersi degli strumenti dell'usabilità per migliorare la qualità del sito web.
Le aziende sono avvisate: non spendete soldi per siti web all'ultima moda, ma fate lavorare bene quello che avete. Risparmierete e farete felici i vostri clienti.
Di stefano (del 13/03/2009 @ 15:49:05, in Analisi, linkato 4449 volte)
Su Punto informatico oggi è stato pubblicato un articolo dal titolo Utonti o software incomprensibili? che ha attirato la mia attenzione. Avevo già sentito la parola “utonti” in una discussione tra ingegneri informatici e, visto che non amo neanche la definizione utente, la storpiatura non mi era affatto piaciuta. Sono andato a leggere l’articolo, di cui preferisco non parlare, e anche alcuni commenti e uno di questi mi ha veramente lasciato di sasso. Un tale Hal, manco il coraggio del nome, alla fine del suo commento scriveva: “Figurarsi poi che il software dovrebbe adattarsi agli utonti, risultando anch'esso stupido quanto loro”. Da questo commento si capisce il perché di tanti software e siti web cervellotici e scadenti. Farli in modo che le persone possano utilizzarli con semplicità e senza pensare a quello che c'è dietro, viene ritenuto stupido e ferisce l’amor proprio di certi signori, che per il solo fatto di saper scrivere qualche riga di codice o configurare qualche server, si sentono parte di una elite dalle capacità intellettive superiori. Per fortuna che c’è la crisi, così tanti di loro resteranno senza far niente, per mancanza di “utonti”, ovvero clienti, e magari cambieranno mestiere.
Di stefano (del 03/03/2008 @ 08:06:04, in Analisi, linkato 7139 volte)
Mi capita spesso, soprattutto incontrando manager e uomini di marketing, di sentire ancora la definizione “utente medio”. Chi sia con certezza questo fantomatico “utente medio” nessuno lo sa, perché la descrizione che ne viene fatta è sempre diversa. Una cosa è certa: in suo nome viene perpetrata ogni sorta di nefandezza progettuale, tanto, il signor “utente medio” non protesta mai. L’utente medio è come “la gente” per i politici. Li sentiamo sempre dire: “la gente vuole questo”, “la gente è con noi”, ecc. E le stesse frasi tornano, con le opportune varianti, nelle riunioni dei team web: “L’utente medio amerà questa funzionalità”, dice uno. “No, non la userà mai”, dice un’altro; e così via in discussioni senza fine. Quanti di voi sono incappati in uno scenario del genere? Credo molti.
Per quanto mi riguarda, appena sento qualcuno pronunciare “utente medio”, intervengo cortesemente e dico: “Mi scusi se la interrompo, ma l’utente medio non esiste. I visitatori del sito web sono persone in carne e ossa, ognuna con le proprie esigenze, proprio come lei. Quindi, tutto quello che andremo a fare dovrà avere come obiettivo quello di capire meglio di cosa hanno bisogno queste persone, per soddisfarle nel miglior modo possibile. Come io sto cercando, parlando con lei, di capire bene quello che la sua organizzazione vuole ottenere con il sito web, e fare in modo che questo si verifichi”.
In molti casi, quasi sempre direi, questo funziona, anche se dopo occorre molta pazienza nello spiegare bene le attività di ricerca, a che cosa servono e quali benefici portano. In caso contrario, è un cliente con cui non vale la pena lavorare.
Di stefano (del 30/10/2007 @ 17:54:30, in Analisi, linkato 4108 volte)
La presunta nuova stagione di internet somiglia sempre di più a quella che ci siamo lasciati alle spalle dopo lo scoppio della bolla speculativa. Di questi tempi, basta appiccicare l’etichetta 2.0 ovunque per far credere che siamo di fronte a novità assolute. Per quanto mi riguarda, condivido il pensiero di Tim Berners Lee, per il quale non esiste il Web 2.0, ma una naturale evoluzione, agevolata dall’innovazione tecnologica, di quello che è sempre stato l’obiettivo del web: facilitare la condivisione di idee e informazioni tra le persone. La riflessione nasce dopo aver partecipato al convegno Web in Tourism, dove ho assistito ad alcuni interventi, non tutti per fortuna, che sembravano provenienti dal passato. Un orgia di terabyte, repliche 3D di città, oscure interfacce di siti web piene di filmati e animazioni e etichette 2.0 appiccicate un po' a caso. Tutto descritto senza mai porsi la domanda più importante. A chi e a cosa serve tutto questo? A nulla, secondo me: specchietti per allodole, per vendere servizi inutili ad aziende che non hanno neanche digerito la prima stagione di internet. Parlo delle piccole e medie, quelle grandi sono più smaliziate per caderci di nuovo. A queste aziende si cerca di far credere, di nuovo, aggiungo io, che il loro successo passerà dall’acquistare e implementare sui loro siti web la soluzione tecnologica più evoluta, allettandole con bassi costi iniziali, nel caso specifico un sito web con un'interfaccia inusabile a 500 euro, per poi vendergli tutta la “chincaglieria” di contorno. Non è così. Il modo migliore per avere successo è quello di rispondere alle necessità di chi visita il sito web, fornendo informazioni ben organizzate e servizi semplici da utilizzare. E questo si può ottenere, non mi stancherò mai di ripeterlo, solo coinvolgendo i reali fruitori del sito web nello sviluppo del progetto.
Di stefano (del 27/09/2007 @ 14:11:51, in Analisi, linkato 6333 volte)
Ho partecipato all’E-Commerce Forum dove l’Osservatorio B2c Netcomm e la School of Management Politecnico di Milano presentavano i dati della ricerca annuale sullo stato dell’e-commerce in Italia. La situazione non sembra essere particolarmente brillante in termini assoluti, soprattutto rispetto ad altri paesi europei. Tralascio cifre e grafici e passo subito al punto che mi interessa. Perché il commercio elettronico in Italia non decolla? Come sempre in questi convegni, dove si incontrano amministratori delegati e uomini di marketing, le problematiche tecnologiche connesse all’argomento sono sempre poste in primo piano. Problemi di sicurezza, di piattaforme e l’immancabile lamento: c’è poca banda larga. Abbiamo sollecitato, con una domanda, una riflessione sulla qualità della user-experience. Silenzio, se non un timido accenno al fatto che una nota azienda (non specificata) si appresta a lanciare un nuovo sito web di e-commerce con la consulenza di una società londinese specializzata in user-experience. Alla fine il presidente della Netcomm ha rimarcato come secondo lui tutti gli aspetti presi in considerazione per incrementare l’e-commerce sono degni di considerazione ma quello fondamentale da risolvere è la mancanza dell’infrastruttura per la banda larga. Dissento da questo e vi spiego perché.
Quando si sviluppa un progetto con un approccio user-centred, si effettuano delle ricerche su chi saranno i nostri visitatori, con lo scopo di definirne in primo luogo le necessità e gli obiettivi. Ma non solo: si analizzano anche le condizioni d’uso. Quindi siamo in grado di sapere (le ricerche E-family e Istat sono piene di questi dati) come il nostro visitatore di riferimento si collega ad internet, con quale frequenza e da dove. Possiamo quindi, in fase di definizione delle specifiche, indicare le limitazioni che le pagine devono avere, anche in termini di download. Provate, invece, a visitare i nostri siti web di e-commerce. La maggior parte di loro ha home page piene zeppe di prodotti, sistemi di navigazione e procedure di acquisto farraginosi, motori di ricerca interni inattendibili e qui mi fermo.
Un esempio efficace che menziono sempre quando spiego come le condizioni d’uso siano importanti potete vederlo sul sito web USA di Lastminute.com http://us.lastminute.com/ Guardate alla fine dei tab, c’è un piccolo link chiamato “The boss is watching - look busy”. La sua presenza è chiara a chiunque abbia osservato le persone lavorare negli open space degli uffici americani.
Al contrario, pensate al sito web di una nota assicurazione online che vi accoglie al grido di “Ti amo” e immaginate il seguente scenario. In ufficio. Durante l’orario di lavoro vi prendete una pausa. I colleghi intorno sono assorti nelle loro attività. Dovete fare il preventivo di rinnovo per la RC Auto. Digitate l’indirizzo e improvvisamente la voce “Ti amo” rompe il silenzio e tutti si girano a guardarvi. Imbarazzante, no?
Due esempi, due modi diversi di gestire la user-experience. La prima è attenta alle persone, la seconda no.
Una efficace sintesi del convegno potete leggerla sul blog di Alberto Mucignat.
Le presentazioni e il rapporto (disponibile a breve) possono essere scaricati dal sito web http://www.osservatori.dig.polimi.it
Di stefano (del 19/07/2007 @ 08:12:34, in Analisi, linkato 2804 volte)
“(...) Gerard guardò in su e disse «Che cosa desi... Mamma! Come mai tu qui?» «Sono venuta a trovarti caro.» «È giovedì, oggi? Oh, Signore, chi se ne ricordava! (...) ora non possiamo parlare. Allora generale?»” Il generale Reiner voltò la testa e incrociò le mani dietro il dorso. (...) «Era autorizzata a venire qui?» «Non a quest’ora, veramente, ma garantisco io per lei. Non sa neppure leggere un termometro, perciò niente di quanto diciamo noi significa qualcosa, per lei. Tornando a noi, generale, sono finiti su Plutone. Capisce? (...) Di tutte le spedizioni che abbiamo inviato oltre la fascia dei planetoidi, pare che una ce l’abbia fatta. E sono arrivati su Plutone.» «(...) e al momento attuale Plutone dista poco meno di quattro miliardi di miglia. Le onde radio, viaggiando alla velocità della luce, impiegano sei ore per viaggiare da qui a là. Se diciamo qualcosa, dobbiamo aspettare sei ore per avere una risposta. (...)» «Ecco perché mi servono il Multivac e i vostri tecnici. Dev’esserci una strategia delle comunicazioni alla quale ricorrere, che ci permetta di ridurre il numero di segnali che occorre trasmettere. Un aumento di efficenza, non fosse che del dieci per cento, potrebbe voler dire una settimana guadagnata.» La voce pacata [di sua madre] tornò ad interrompere. «Santo cielo, Gerard, stai cercando di arrivare a dire delle cose... delle cose...» «Mamma! Ti prego!» «Ma scusa, stai sbagliando tutto, te l’assicuro io.» «Mam-ma!» «Be’, come vuoi tu; ma se hai intenzione di dire qualcosa e poi aspettare dodici ore, sei sciocco. Fai malissimo.» Il generale diede un colpetto di tosse. «Dottor Cremona, consulteremo...» «Un momento, generale» disse Cremona. «Che cosa vuoi dire, mamma?» «Mentre aspetti la risposta» disse la signora Cremona, seria seria «ti conviene continuare a trasmettere e dire loro di fare lo stesso. (...) Nel frattempo, tanto da voi che da loro dev’esserci qualcuno in ascolto. (...), facendo così, ci sono buone probabilità di venire a sapere tutto senza bisogno di chiedere.» Entrambi gli uomini si guardarono. «Ma certo» bisbigliò Cremona. «Conversazione continua. (...)» «Ma come hai fatto a pensarci, mamma? Come sei arrivata a una soluzione del genere?» «Ma, caro, tutte le donne lo sanno. Due donne qualsiasi, al videofono, per stratocavo, o semplicemente faccia a faccia, sanno che il segreto per spargere una notizia è quello di continuare a parlare, a dispetto dei santi.» Cremona tentò di sorridere. Poi, (...), si voltò e uscì. (...) Gran caro uomo suo figlio, il fisico. Grande e grosso e importante com’era, non dimenticava mai che un ragazzo deve sempre dar retta alla sua mamma.” Estratto da: Mio figlio, il fisico di Isaac Asimov (Antologia Personale, Mondadori, 1978)
Ho preso in prestito alcune battute di questo delizioso racconto di Asimov per introdurre l’oggetto di questa analisi: spesso gli esperti non siamo noi, e men che meno lo sono i nostri committenti; gli esperti sono fuori, sono persone comuni, che sanno poco o nulla di tecnologia ma che la usano tutti i giorni per lavorare o per le loro attività personali, piegandola frequentemente, spesso inconsapevolmente, alle loro esigenze. Parlare con loro, osservarle mentre la usano e coinvolgerle nella valutazione dei prototipi è indispensabile per poter ottenere risultati di qualità. Inoltre, cosa ancora più importante, queste attività offrono spunti per nuove idee o nuovi servizi, che al chiuso delle sale riunioni non si riescono neanche a immaginare. Senza contare, poi, che i risultati di queste attività di ricerca metterebbero fine a sterili dispute su quali funzionalità implementare, quali soluzioni scegliere e quali tecnologie usare. Con gran risparmio di tempo e denaro, risorse che notoriamente scarseggiano.
Così, mentre sempre più spesso si legge che la tecnologia deve tornare a essere strumento e non fine, spostando l’attenzione sulle necessità delle persone, ancora oggi ci sono progetti web che iniziano con lo sviluppo del codice o dell’interfaccia grafica, senza alcuna attività di ricerca e valutazione. E non credete che ci sia un problema di budget a giustificare questa scelta. La maggior parte delle volte lo si fa perché “noi lavoriamo così” che si traduce in “senza sapere perché e per chi stiamo facendo quello che facciamo”. Senza una metodologia progettuale, quindi, e i risultati di questa mancanza sono evidenti.
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